Egli si alzò e lesse:
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato…
a proclamare l’anno di grazia del Signore” (cfr Lc 4,16-21).
Chiamati e inviati: questo ha fatto di noi il Signore!
E’ il discepolo-missionario di cui parla Papa Francesco nella Evangelii Gaudium (EG 120).
E lo è nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Gesù Cristo, vive cioè in un rapporto di intimità con il Signore, come Gesù con il Padre: “se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio” (Lc 6,12).
Il monte è il luogo dell’incontro con Dio, è lo spazio privilegiato del dialogo con il Padre:
così più volte gli evangelisti collocano Gesù, soprattutto nei momenti decisivi della sua esistenza terrena.
Intorno al mare di Galilea invece Gesù trascorre la sua giornata di lavoro, di azione evangelizzatrice: chiama alla sequela, insegna nella sinagoga di Cafarnao, guarisce molte malattie del cuore e della carne, condivide la vita familiare, l’amicizia, lo stare insieme (cfr Mc 1-3).
Il monte e il mare: due luoghi, due modi di essere su cui possiamo riflettere questa sera:
stare sul monte di Dio, in Gesù Cristo, e vivere lungo le sponde della quotidianità con tutti.
SALIRE E RIMANERE SUL MONTE DI DIO
Giunti in vetta però si guarda l’orizzonte e si dimentica la valle, si è attratti dalla contemplazione e si gioisce per la fatica superata.
La vita cristiana, la vita del prete è strada in salita, è una permanente scalata.
Sul monte, in Gesù Cristo, occorre rimanere per dare fecondità al vivere cristiano e sacerdotale; e dal monte si discende, come ha fatto Mosè, portando con sé il Signore – la sua Parola, norma di vita, il dono della sua presenza, il segno del volto raggiante per il colloquio divino (cfr Es 34,29-35).
Cari amici, avviene così nella nostra vita quotidiana – cristiana e sacerdotale: si fatica a conformarci a Cristo con tutti i mezzi che la Chiesa ci offre.
Soprattutto siamo invitati a guardare Lui, ad attingere dalla sua Misericordia, dal suo Amore gratuito con cui da sempre ci ama facendoci dimenticare la povertà che noi siamo.
Questa è la forza e la gioia per andare avanti: cercare appassionatamente Cristo e cercare di conformarsi a Lui.
Vale per ogni consacrato nel Battesimo, ancor più per il ministro ordinato la cui configurazione a Lui, sommo ed eterno sacerdote, attraverso il vescovo, è per profumare di una vita che con la parola e l’esempio edifichi la sua Chiesa (dal Pontificale, Ordinazione dei Presbiteri).
Cari confratelli sacerdoti, il prete è l’uomo che, per grazia, ritrova nelle sue mani ogni giorno l’umanità, fatta carne, di Gesù Figlio di Dio, al quale è chiamato a conformare se stesso fino a ripetere con l’apostolo Paolo: “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Questa è l’Eucaristia, il mistero che genera e feconda il nostro sacerdozio ministeriale. E’ il mistero che fonda tutta la Chiesa. E’ il mistero che Cristo sacerdote ha lasciato ai suoi apostoli e consegna a tutti gli uomini attraverso i suoi ministri.
A Gesù Cristo, come in una perenne eucaristia, occorre offrire la nostra umanità e l’umanità di tutte le creature, perché diventi carne consacrata, perché Dio accolga e continui a donare al mondo il sacerdozio, affidando ad esso quel mistero che è in lui dall’inizio dei tempi e per l’eternità.
“Tu sei sacerdote per sempre, Cristo Signore” [Salmo 110 (109) 4].
La beatitudine della contemplazione, la gioia della visione sono momenti belli; ma per durare bisogna continuamente alimentarli, cioè rimanere in Cristo come i tralci alla vite (Gv 15,1-7), lasciare che sia Gesù il centro della propria esistenza.
La ferialità tende a prevalere sulla festività, ma i momenti di luce devono avere la forza di spandersi nelle lunghe giornate grigie della vita. Perfino devono avvolgerci nel fango del peccato, nella palude di una umanità a cui manca la volontà e la forza di un radicale cambiamento esistenziale.
I momenti trasfiguranti sono gli incontri con la Misericordia del Signore.
Lì, nel mistero dell’amore gratuito, si è trasfigurati e transustanziati!
LA FATICA DELLA GIORNATA
Mette insieme degli uomini perché rimangano con lui e perché insieme siano impegnati nel condividere il ministero dell’annuncio e della guarigione.
Per Gesù è fondamentale il rapporto relazionale che instaura con le persone che incontra.
Il 7 dicembre dello scorso anno ricorreva il cinquantesimo anniversario dell’approvazione da parte dei Padri conciliari del decreto Presbyterorum Ordinis, sul ministero e la vita dei sacerdoti.
Papa Francesco, alcuni giorni prima, rivolgendosi ai sacerdoti convenuti al convegno promosso dalla Congregazione per il Clero, ha tracciato un identikit per il prete di oggi, rifacendosi alla lettera agli Ebrei: “I presbiteri sono stati presi fra gli uomini e costituiti in favore degli uomini stessi nelle cose che si riferiscono a Dio, per offrire doni e sacrifici in remissione dei peccati” (cfr Ebr 5,1); e aggiunge: “vivono quindi in mezzo agli altri uomini come fratelli in mezzo ai fratelli” (PO 3).
Il sacerdote è un uomo che nasce in un certo contesto umano “è preso fra gli uomini”; lìapprende i primi valori, assorbe la spiritualità del popolo, si abitua alle relazioni.
Ciascuno di noi ha una storia, non siamo giunti per caso al sacerdozio, non siamo approdati a questa Chiesa per un naufragio!
Occorre ricordarci da dove siamo stati presi: dalla nostra famiglia, primo luogo della nostra formazione vocazionale, dalla Parrocchia e dall’ambiente in cui la vocazione è maturata. Conoscere e ritornare frequentemente alla propria storia con le sue ricchezze e le sue ferite, facendo pace con essa, è aver raggiunto una serenità di fondo, è maturità del discepolo del Signore.
Il prete se è un uomo pacificato è anche un apostolo della gioia.
La nostra umanità è il “vaso di creta” in cui custodiamo il tesoro di Dio, un vaso di cui dobbiamo aver cura, per trasmettere bene ai fratelli il suo prezioso contenuto. Il Signore ci prende tra gli uomini per “costituirci in favore degli uomini”, cioè ci pone come presbiterio a servire i fratelli e le sorelle, ad essere come il Battista “lampada che arde e risplende” (Gv 5,35).
Tre sono le immagini a cui Gesù ci chiede di guardare spesso: a lui sacerdote, servo, pastore buono.Cari confratelli, non siamo sacerdoti per noi stessi; siamo stati consacrati per il popolo di Dio, riscattato dal sangue di Cristo sulla croce.
E alla comunità cristiana, ci presentiamo non a titolo personale, ma come presbiterio, per cui la fatica di uno è supportata da tutto il corpo presbiterale, la ferita o il fallimento di un membro addolora tutta la compagine del corpo, la gioia è condivisa da tutta la famiglia diocesana.
L’apostolo delle genti utilizza l’apologo del corpo per esprimere la diversità dei carismi e l’unità della chiesa (cfr 1 Cor 12 4-31): il presbiterio è l’insieme di coloro che condividono la consacrazione e la missione dell’Inviato del Signore, Cristo-l’Unto di Dio. L’unum presbyterium non è il prodotto di particolari strategie di consenso, è il frutto di una genuina spiritualità di comunione creata dall’unità sacramentale del presbiterio nella Chiesa. La comunione non si organizza, si genera.
Il presbiterio è un organismo, non un’organizzazione; il presbiterio non si consuma, si costruisce; è il luogo della nostra formazione permanente. Ciò che dal popolo è nato, col popolo deve rimanere: il sacerdote è “sempre in mezzo agli uomini”: non è un professionista dell’evangelizzazione o del culto, che arriva e fa ciò che deve – e magari lo fa anche bene – e poi se ne va a vivere una vita privata. Si è consacrati preti per stare nel presbiterio e per essere vicini alla gente. Si è preti per servire il popolo di Dio.
Il bene che possiamo fare nasce soprattutto dalla vicinanza e da un tenero amore per le persone. Non siamo filantropi né funzionari, siamo padri e fratelli, ci ricorda Papa Francesco.
Cari confratelli, tutto, proprio tutto nella nostra vita di preti, deve fare riferimento alla fraternità, che è carità pastorale: gareggiare nella stima reciproca, abituarci sempre più alla correzione fraterna, evitare il sospetto, preferire sempre la strada della misericordia.
“Ravviva il dono di Dio che è in te” ci ripete l’apostolo Paolo in questa cena pasquale (2 Tim 1,6).
Il sacerdote, per il dono ricevuto, è ministro della misericordia divina. Egli la manifesta soprattutto vivendo, nella propria carne, la bellezza e insieme il dramma di questo paradosso: è un peccatore chiamato a dispensare la misericordia di Dio agli altri, un uomo ferito che, una volta risanato dall’olio della grazia di Dio, fa scendere questa unzione sul popolo che gli è stato affidato. Soltanto dopo, nella concretezza di una vita vissuta nella misericordia, riuscirà a comunicare ai fratelli il desiderio di Dio, li aiuterà a rialzarsi dal fango del peccato. Sperimentando in prima persona la tenerezza di Dio, la misericordia può diventare il tratto distintivo del suo ministero.
Cari amici che formate la Chiesa di Dio che vive in Civitavecchia-Tarquinia, noi preti confidiamo nelle vostre preghiere e nella vostra vicinanza fraterna, perché si possa rimanere sul monte di Dio in Gesù Cristo e, nello stesso tempo, si possa condividere la stanchezza e la fatica del quotidiano cammino di ogni persona.
Alla Vergine Maria, Regina degli apostoli e Madre di misericordia, affidiamo noi stessi, tutto il presbiterio, l’intera comunità ecclesiale.
Così sia!