Il digiuno: esercizio ascetico


Nelle scorse domeniche di Quaresima abbiamo appuntato alcune considerazioni sul digiuno come fame e attesa della Parola e come presa di coscienza della corporeità. Oggi rifletteremo brevemente sul suo valore ascetico. Si tratta della sfumatura spirituale forse più evidente e storicamente molto ben connotata dall’eredità della tradizione monastica, specialmente orientale, dagli esempi di molti santi, dalla pratica religiosa del Ramadan, il grande digiuno che costituisce uno dei cinque pilastri dell’islamismo, dall’insegnamento dei padri della Chiesa. 
Avere fame significa provare una sensazione di dolore, di sofferenza psicofisica, di affaticamento. In considerazione di una pratica del digiuno ormai molto blanda e saltuaria ci riesce difficile percepire questo carattere. Ma ben lo conoscono quanti, nelle Chiese orientali, si esercitano ancora in digiuni molto prolungati e rigorosi, astenendosi dal cibo anche per molti giorni. Contrastare lo stimolo della fame equivale a lottare per conquistare il dominio di sé stessi sulle proprie passioni corporee, così da predisporsi pienamente, con un corpo purificato e una mente limpida e consapevole, al servizio dell’amore di Dio e del prossimo. Il tempo quaresimale è stato inaugurato da una preghiera che sottolinea proprio questo carattere del digiuno: «O Dio, nostro Padre, concedi, al popolo cristiano di iniziare con questo digiuno un cammino di vera conversione, per affrontare vittoriosamente con le armi della penitenza il combattimento contro lo spirito del male» (Preghiera colletta del Mercoledì delle Ceneri).