«Una Chiesa che desidera uscire dal recinto e decide di farlo»

Introduzione all‘Assemblea diocesana

 

1. Il compito della lettura
Abbiamo il dovere di leggere la situazione in cui viviamo, alla luce di quanto ci chiede Gesù in Lc 12, 56-57:  56Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo? 57E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?
Abbiamo
Infatti proveniamo da una situazione umana, sociale e pastorale molto particolare, dalla quale non siamo pienamente usciti e che dobbiamo considerare come determinante per la sfida che pone dinanzi a noi.
All’inizio del mio ministero tra voi sento il dovere di aprire con voi e per voi un cammino su cui proseguire il percorso fatto negli anni trascorsi (come ho scritto nella lettera che trovate nell’Agenda pastorale che viene consegnata questa sera).
Mi chiedo: quali sono le caratteristiche della situazione attuale? Provo ad elencarle.
La pandemia – e ciò che ne consegue – ci lascia un senso di isolamento umano e sociale con cui confrontarci. I mesi trascorsi hanno originato una crisi occupazionale ed economica senza precedenti, che si innesta sulla fatica conseguente alla crisi finanziaria del 2008 (anche in quel caso la sprovvedutezza e la mancanza di lungimiranza di tanti hanno creato situazioni per molti versi insostenibili ben conosciute dagli operatori della Caritas e da tutti coloro che vivono nella dimensione del servizio agli ultimi). Nei prossimi mesi temo che vedremo altre conseguenze drammatiche del periodo di lock down e della conseguente “essiccazione / depauperamento” di attività economiche. Il porto di questa città ne è un testimone autorevole, purtroppo.
Come non ricordare la paura generata in tanti (soprattutto nei bambini e negli adolescenti)? Inutile nascondere che le ripercussioni sulla vita pastorale delle nostre comunità sono palpabili e ci interrogano se non altro per il decremento di presenza alle nostre attività / proposte ed ancor più per l’impossibilità allo stato attuale di realizzare ogni forma di vita oratoriale.
La pandemia ha rallentato, ma non fermato, il fenomeno migratorio con il quale abbiamo il dovere di confrontarci, trattandosi di una realtà ineludibile del nostro tempo. Abbiamo da poco celebrato la Giornata del migrante e vorrei ricordare che entrare in questo argomento non deve spaventare, bensì può far crescere la speranza dell’incontro con l’altro come dono per la nostra esistenza. Richiamo quanto detto da Papa Francesco ai partecipanti al progetto “Snapshots from the borders” il 10 settembre scorso:
È anche fondamentale cambiare il modo di vedere e raccontare la migrazione: si tratta di mettere al centro le persone, i volti, le storie. Ecco allora l’importanza di progetti, come quello da voi promosso, che cercano di proporre approcci diversi, ispirati dalla cultura dell’incontro, che costituisce il cammino verso un nuovo umanesimo. E quando dico “nuovo umanesimo” non lo intendo solo come filosofia di vita, ma anche come una spiritualità, come uno stile di comportamento. Gli abitanti delle città e dei territori di frontiera – le società, le comunità, le Chiese – sono chiamati ad essere i primi attori di questa svolta, grazie alle continue opportunità di incontro che la storia offre loro. Le frontiere, da sempre considerate come barriere di divisione, possono invece diventare “finestre”, spazi di mutua conoscenza, di arricchimento reciproco, di comunione nella diversità; possono diventare luoghi in cui si sperimentano modelli per superare le difficoltà che i nuovi arrivi comportano per le comunità autoctone.
Siamo una società in grande affanno, a mio avviso. E la pandemia ci ha reso più instabili. Tra i giovani in particolare è diffuso il senso di precarietà, di provvisorietà. Dove appoggiare certezze per costruire il proprio futuro?
Qualora pensassimo che tali ragionamenti non entrano nell’ambito pastorale, dovremmo chiederci: che cosa è la pastorale? Non è forse l’arte di entrare nella vita delle persone per accompagnarle all’incontro definitivo e centrale della propria esistenza, l’incontro con Dio? Nel ragionare su queste provocazioni (come desidero che nelle comunità / associazioni / movimenti si possa aprire un confronto su tutto questo!) siamo proprio al centro dell’attenzione ad una pastorale che si ponga veramente in ascolto delle domande profonde delle persone. Vorremmo essere una Chiesa che desidera uscire dal recinto e decide di farlo: stare con la gente, capire le situazioni che vive, intercettare le domande vere ed insistenti che affollano il suo cuore, proporle percorsi di fraternità e di incontro, superare steccati e barriere tra la nostra gente (amata!) e le nostre istituzioni (qui, direbbe il Papa, possiamo trasformare la nostra presenza da quella di un “museo” a quella di una casa accogliente, come mi ha chiesto due mesi fa un giovane adolescente di questa città).

 

2. Il valore aggiunto della Laudato si’
Credo che accogliere l’invito del Papa a leggere e a meditare l’enciclica del 2015 sulla cura della casa comune sia un percorso importante ed esaltante per rileggere la nostra presenza nella società e possa aprirci spazi nuovi di interazione e di dialogo con tutte le componenti della vita pubblica. È un valore aggiunto: nulla toglie alla vita ordinaria delle nostre comunità, anzi. Presuppone il percorso di formazione e di iniziazione tradizionale, comprende in pienezza il cammino eucaristico domenicale (come ho sottolineato nella lettera di cui sopra), ma inserisce in tutte le dimensioni della nostra vita ecclesiale una “passione” per l’uomo al centro del creato e per il dialogo tra persona ed ambiente che il Papa definisce l’ecologia integrale. Ha detto recentemente il Papa:
Tutto dunque è connesso. Sono la stessa indifferenza, lo stesso egoismo, la stessa cupidigia, lo stesso orgoglio, la stessa pretesa di essere il padrone e il despota del mondo che portano gli esseri umani, da una parte, a distruggere le specie e saccheggiare le risorse naturali, dall’altra, a sfruttare la miseria, abusare del lavoro delle donne e dei bambini, rovesciare le leggi della cellula familiare, non rispettare più il diritto alla vita umana dal concepimento fino al termine naturale. (Discorso ad un gruppo di esperti che collaborano con la Conferemza Episcopale Francese sul tema della LS, 3 settembre 2020)
Il Papa ci chiede di riflettere: non esiste un impegno per la difesa dell’ambiente (abbiamo forse bisogno di qualche altro segnale per capire che la questione ci riguarda tutti e che non sipuò più indugiare ad inserire anche nei percorsi catechistici o nella formazione spirituale una riflessione sulla custodia del creato?). Per i credenti, ogni scelta ecologica va in direzione dell’ ecologia integrale: la relazione tra le persone è in armonia con la relazione con l’ambiente.
Di più, il Papa ci ha invitato a pensare la nostra vita immersa nella globalizzazione (troppo spesso egoistica e capace di originare lo scarto) come foriera di solidarietà:
Il principio di solidarietà è oggi più che mai necessario, come ha insegnato San Giovanni Paolo II (cfr Enc. Sollicitudo rei socialis, 38-40). In un mondo interconnesso, sperimentiamo che cosa significa vivere nello stesso “villaggio globale”. È bella questa espressione: il grande mondo non è altra cosa che un villaggio globale, perché tutto è interconnesso. Però non sempre trasformiamo questa interdipendenza in solidarietà. C’è un lungo cammino fra l’interdipendenza e la solidarietà. Gli egoismi – individuali, nazionali e dei gruppi di potere – e le rigidità ideologiche alimentano al contrario «strutture di peccato» (ibid., 36). (Udienza generale del 2 settembre 2020)

 

3. Quali linee per il nostro cammino, allora?
Chiediamo stasera una lettura della situazione che possa offrirci indicazioni a don Bruno Bignami, Direttore dell’Ufficio della Conferenza Episcopale Italiana per la Pastorale sociale e del lavoro, ma mi permetto di indicare due o tre passaggi che credo auspicabili per i nostri percorsi.
– Possiamo cercare in tutti i nostri percorsi di parlare dei temi della Laudato si’, e di creare una vera sensibilità verso il concetto di ecologia integrale.
– Possiamo proporre a tutti i fedeli passi operativi concreti in vista di un impegno nell’uso delle risorse che sia rispettoso dell’armonia con l’ambiente che ci circonda.
– Possiamo riflettere nelle nostre assemblee parrocchiali circa il futuro delle nostre città e paesi: da parte dei cristiani è necessario un coinvolgimento sempre più attivo nella cosa pubblica. A mo’ di esempio: qui a Civitavecchia non possiamo omettere di parlare con forza di uno sviluppo delle attività economiche legate al porto, se vogliamo avere una prospettiva per il futuro. A Tarquinia (ma penso anche a Montalto e Pescia) possiamo impegnarci per una rinnovata cultura della terra, integrando le attività agricole (con la speranza che interessino e coinvolgano sempre più i giovani) con la proposta culturale e turistica. A Tolfa ed Allumiere possiamo riflettere insieme sulla valorizzazione delle belle tradizioni culturali e religiose esistenti da coniugare con una efficiente rapporto con la città e con l’intero tessuto provinciale.
– Tutto questo ci porterà a immaginare un percorso di sviluppo e di rinascita che deve sostenere il periodo post covid, entrando nella logica dell’economia circolare, così vicina al pensiero del Papa e così strettamente legata alla sensibilità ambientale, oggi in piena sintonia con in nuovi indirizzi delle politiche europee.
Non vi nascondo due preoccupazioni presenti nel mio cuore.
– È certamente vero che il tempo del lock down ci ha costretto a rivedere i nostri modi di essere e di pensare e ci ha richiamato a valori essenziali, riportandoci all’ambito esclusivo delle relazioni familiari. È stato anche tempo di Grazia con una rinnovata passione per l’”umano”. Ma non sarà che abbiamo già dimenticato il monito che ne abbiamo tratto? Non sarà che siamo già ritornati alla frenesia, alle imprudenze, alle “dipendenze” mediatiche (siamo stati anche malati di zoomia, dice qualcuno), alla logica dell’efficienza e della produttività. Tutto questo va in evidente conflitto con l’ecologia integrale!
– Oggi, alla ripresa di una vita ecclesiale “quasi normale” non dobbiamo illuderci: niente sarà più come prima. E non solamente per le abitudini nuove che stiamo imparando ed acquisendo a causa delle norme igieniche dettate dalla pandemia, ma per la fatica a riprendere i cammini di incontro, di relazione, di formazione. Da qualche parte mi giungono notizie allarmanti: le persone stentano a tornare alla pratica della fede, i bambini e ragazzi che parteciperanno alla catechesi saranno in numero inferiore rispetto al passato, non possiamo realizzare niente in oratorio, come proporre attività invitanti ed allettanti se non possiamo nemmeno organizzare una festa?
– Sono problemi nuovi, certo, ma la domanda di fondo resta: il nostro annuncio della fede nel Signore Gesù giunge realmente al popolo? Riusciamo ad essere convincenti nella proposta di fede che offriamo? Credo sia giunto il momento di riflettere sulla kerygmaticità della comunità cristiana, su come riusciamo a proporre il kerygma della fede con efficacia e con convinzione. Non fermiamoci a stereotipi e abitudini. Papa Francesco ebbe a dire alcuni mesi prima che iniziasse la crisi della pandemia:
Pecchiamo di omissione, cioè contro la missione, quando, anziché diffondere la gioia, ci chiudiamo in un triste vittimismo, pensando che nessuno ci ami e ci comprenda. Pecchiamo contro la missione quando cediamo alla rassegnazione: “Non ce la faccio, non sono capace”. Ma come? Dio ti ha dato dei talenti e tu ti credi così povero da non poter arricchire nessuno? Pecchiamo contro la missione quando, lamentosi, continuiamo a dire che va tutto male, nel mondo come nella Chiesa. Pecchiamo contro la missione quando siamo schiavi delle paure che immobilizzano e ci lasciamo paralizzare dal “si è sempre fatto così”. E pecchiamo contro la missione quando viviamo la vita come un peso e non come un dono; quando al centro ci siamo noi con le nostre fatiche, non i fratelli e le sorelle che attendono di essere amati. (Omelia nei Vesrpi di inizio del mese missionario straordinario, 1° ottobre 2019)Penso che le Chiese che vivono in Italia (e parliamo di noi stasera, Chiesa bella e gioiosa di Civitavecchia – Tarquinia!) debbano interrogarsi su come vivono e testimoniano la fede, alla luce di Evangelii Gaudium e su come propongono il proprio tesoro, il depositum fidei, il kerygma del Signore Gesù che si è consegnato per noi ed ha vinto la morte con la sua Resurrezione. In questa prospettiva ritengo che vivere un anno di meditazione, di attenzione e contemplazione a partire dalla profezia di Laudato si’ ci consentirà di entrare in relazione con tutti coloro che condividono preoccupazioni e sofferenze circa le sorti del creato e della vita sociale: anche questo è un modo per annunciare la forza della profezia cristiana (cfr. Laudato si’, cap. VI). Mi riferisco ancora al Papa:
Dunque, è importante recuperare la dimensione contemplativa, cioè guardare la terra, il creato come un dono, non come una cosa da sfruttare per il profitto. Quando contempliamo, scopriamo negli altri e nella natura qualcosa di molto più grande della loro utilità. Qui è il nocciolo del problema: contemplare è andare oltre l’utilità di una cosa. Contemplare il bello non vuol dire sfruttarlo: contemplare è gratuità. Scopriamo il valore intrinseco delle cose conferito loro da Dio. Come hanno insegnato tanti maestri spirituali, il cielo, la terra, il mare, ogni creatura possiede questa capacità iconica, questa capacità mistica di riportarci al Creatore e alla comunione con il creato. Ad esempio, Sant’Ignazio di Loyola, alla fine dei suoi Esercizi spirituali, invita a compiere la “Contemplazione per giungere all’amore”, cioè a considerare come Dio guarda le sue creature e gioire con loro; a scoprire la presenza di Dio nelle sue creature e, con libertà e grazia, amarle e prendersene cura. La contemplazione, che ci conduce a un atteggiamento di cura, non è un guardare la natura dall’esterno, come se noi non vi fossimo immersi. Ma noi siamo dentro alla natura, siamo parte della natura. Si fa piuttosto a partire da dentro, riconoscendoci parte del creato, rendendoci protagonisti e non meri spettatori di una realtà amorfa che si tratterebbe solo di sfruttare. Chi contempla in questo modo prova meraviglia non solo per ciò che vede, ma anche perché si sente parte integrante di questa bellezza; e si sente anche chiamato a custodirla, a proteggerla. E c’è una cosa che non dobbiamo dimenticare: chi non sa contemplare la natura e il creato, non sa contemplare le persone nella loro ricchezza. E chi vive per sfruttare la natura, finisce per sfruttare le persone e trattarle come schiavi. Questa è una legge universale: se tu non sai contemplare la natura, sarà molto difficile che saprai contemplare la gente, la bellezza delle persone, il fratello, la sorella. Chi sa contemplare, più facilmente si metterà all’opera per cambiare ciò che produce degrado e danni alla salute. Si impegnerà a educare e promuovere nuove abitudini di produzione e consumo, a contribuire ad un nuovo modello di crescita economica che garantisca il rispetto per la casa comune e il rispetto per le persone. Il contemplativo in azione tende a diventare custode dell’ambiente: è bello questo! Ognuno di noi dev’essere custode dell’ambiente, della purezza dell’ambiente, cercando di coniugare saperi ancestrali di culture millenarie con le nuove conoscenze tecniche, affinché il nostro stile di vita sia sempre sostenibile. (Udienza del 16 settembre 2020)
01-10-2020